Il Grande Kurdistan Resta Un’Utopia
Il Grande Kurdistan Resta Un’Utopia
How to Mitigate the Risks of Iraqi Kurdistan's Referendum
How to Mitigate the Risks of Iraqi Kurdistan's Referendum
Op-Ed / Middle East & North Africa 11 minutes

Il Grande Kurdistan Resta Un’Utopia

1. I movimenti di protesta iniziati nel 2011 hanno provocato un cambiamento profondo negli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Oltre a rimettere in discussione le frontiere stabilite dalle potenze coloniali dopo la prima guerra mondiale, hanno indebolito la capacità dei governi centrali di mantenersi sovrani sul proprio territorio e legittimi agli occhi delle proprie popolazioni. Nel contempo, la guerra allo Stato Islamico (Is) dichiarata tra Iraq e Siria nell’estate del 2014 ha portato le potenze europee e gli Stati Uniti a fornire sostegno militare a quelle forze locali che potessero combattere e sconfiggere i militanti islamisti. La concomitanza di questi tre fattori – un assetto regionale in subbuglio, la crisi delle istituzioni statuali e il sostegno militare internazionale nella lotta contro l’Is – ha offerto ai curdi un’opportunità storica di realizzare le loro aspirazioni di autogoverno.

Il presidente del Kurdistan iracheno Masud Barzani ha intensificato gli appelli all’indipendenza della regione curda nel Nord dell’Iraq, ufficialmente semiautonoma già dal 2005. Nel Nord-Est della Siria, al confine con il Kurdistan iracheno – un territorio che i curdi chiamano Rojava (Ovest in curdo), cioè parte occidentale delle zone abitate dai curdi – dal 2012 ha preso avvio un’esperienza di autogoverno.

Il processo di sgretolamento dello Stato non sembra invece coinvolgere Turchia e Iran: in Turchia, al costo di una feroce repressione interna della quale sono state vittime principali (ma non uniche) i curdi del Sud-Est; in Iran, attraverso un abile gioco di scacchi che ha reso impossibile sino a oggi una mobilitazione politica nelle zone curde.  

Quella che appare come un’opportunità storica di revisione dell’ordine stabilito sconta dunque ostacoli difficilmente sormontabili. 

Il primo è intrinseco agli assetti politici curdi: le strutture di partito costituitesi nel corso di decenni di resistenza armata contro i governi centrali trovano difficoltà ad assumere nuove funzioni e a generare o a trasformarsi in strutture di autogoverno capaci di sostituire quegli stessi governi nelle loro fondamentali funzioni amministrative. Altrettanto difficile è l’adattamento ai nuovi equilibri geopolitici. Il sostegno delle potenze occidentali alle forze curde nella lotta control l’Is, di natura strettamente militare, ha contribuito ad accrescere l’arsenale militare dei singoli partiti curdi e ha nutrito le loro aspettative, senza però fornire risposte chiare sul futuro politico della comunità curda. Le tensioni regionali tra Iran e Arabia Saudita, così come quelle tra Iran e Stati Uniti, hanno coinvolto i partiti curdi e li hanno resi parte integrante della competizione, rendendo impossibile la cooperazione (o addirittura scatenando il conflitto) tra loro per il controllo di zone geografiche confinanti. Si assiste a un divario quasi schizofrenico tra le dichiarazioni dei leader curdi e la loro effettiva capacità di governare il territorio e la popolazione, gestire i rapporti con le potenze regionali e non, trovare un’intesa che consenta la realizzazione delle loro aspirazioni.

2. I partiti curdi, come tutti i movimenti di liberazione nazionale, una volta conquistato militarmente il territorio si trovano a fare i conti con il problema di governarlo. L’esperienza di Fatõ e Õamås in Palestina presenta alcuni tratti simili a quella curda nel tortuoso percorso che vede partiti politici sviluppare alcune funzioni statali – gestione della sicurezza, amministrazione del territorio e costruzione degli organi di rappresentanza politica – prima ancora di dichiararsi Stato a tutti gli effetti.

Il Kurdistan iracheno, ad esempio, ha mosso i primi passi verso l’autonomia appoggiandosi alle strutture dei partiti curdo-iracheni. In Iraq l’esperienza di autogoverno inizia dopo la fine della prima guerra del Golfo, nel 1991, quando gli Stati Uniti impongono al regime iracheno due no-fly zones, una delle quali copre la maggior parte dei territori del Nord dell’Iraq abitati da curdi. In assenza di istituzioni statali, le strutture interne dei Partito democratico del Kurdistan (Kdp) e dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) – le loro forze di sicurezza, le loro segreterie di partito e i loro uffici locali – assumono la funzione di prime istituzioni amministrative, rispettivamente ad Arbøl e a Sulaymåniya. Sin dai primi anni Novanta, i due partiti hanno fondato istituzioni comuni, tra cui un parlamento; tuttavia, l’amministrazione delle aree d’influenza di ciascun partito è rimasta di fatto separata. La competizione intrapartitica è persino sfociata in una lotta fratricida tra membri dei due partiti durata circa tre anni, dal 1994 al 1997.

Uno sforzo più deciso di unificazione amministrativa è avvenuto in seguito all’invasione americana dell’Iraq, nel 2003. Sotto l’egida americana e in cerca di alleati nell’Iraq del dopo-Saddam, Kdp e Puk raggiunsero un accordo, formalmente sancito nel 2007, che metteva fine all’ostilità armata e redistribuiva le posizioni amministrative tra i due partiti nei ministeri del governo regionale del Kurdistan (Krg), con capoluogo Arbøl. Nel decennio seguente, i progressi verso un Kurdistan unito sono stati tangibili: i due partiti hanno sviluppato una linea comune nella loro politica verso Baghdad, hanno unificato gli organi esecutivi del governo (in particolare le forze di sicurezza peshmerga) e hanno attivato la funzione legislativa del parlamento. Le istituzioni curde hanno iniziato così ad acquisire un’identità istituzionale propria, anche se non completamente separata dagli organi di partito, che decidono ancora le assunzioni e gestiscono il pagamento degli stipendi.

La parabola positiva di crescita e rafforzamento istituzionale si è dimostrata fragile, vulnerabile alle crisi politiche interne e ai cambiamenti degli equilibri regionali. In primo luogo, la leadership dei partiti si è dimostrata un elemento chiave per la sopravvivenza delle istituzioni. Il ritiro dalla scena politica di Jalal Talabani, segretario del Puk, ha posto fine all’accordo strategico che teneva unite le sorti dei due partiti: il Kdp ha preso il sopravvento nel governo e nelle forze di sicurezza, creando un nuovo antagonismo nelle province sotto la sua influenza (Arbøl e Dahûk) rispetto a Sulaymåniyya, governata invece dal Puk e dal partito d’opposizione Gorran.

Le elezioni parlamentari del 2013 hanno rotto il tradizionale equilibrio politico tra Kdp e Puk, sancendo la supremazia del Kdp (primo partito con 38 seggi), il recesso del Puk (11 seggi persi) e l’emergere del nuovo partito d’opposizione Gorran (seconda formazione con 24 seggi). La crisi sullo scacchiere regionale scatenatasi nel 2014 ha poi acuito le differenze tra Arbøl e Sulaymåniyya: ciascun partito si è avvicinato al proprio alleato regionale – il Kdp ad Ankara e il Puk a Teheran – disimpegnandosi progressivamente dalla costruzione di istituzioni comuni. 

L’esperienza del Kurdistan iracheno, millantata come quella più vicina a realizzare il sogno di un Kurdistan indipendente, mostra che partiti politici e apparato amministrativo sono ancora strettamente legati. La separazione tra partito e Stato – passaggio fondamentale nella costruzione di uno Stato curdo – resta incompleta e le segreterie di partito svolgono di fatto la funzione di organi decisionali. Vari tentativi sono stati messi in atto per risolvere questo spinoso problema.

Un primo tentativo è consistito nel trasformare il parlamento in un organo di cooperazione tra il Kdp, il Puk e gli altri partiti curdi d’opposizione. Ma il fatto che ad oggi gli organi dell’esecutivo siano prevalentemente controllati solo dal Kdp e dal Puk rende impossibile attuare qualsiasi legislazione sgradita ai due partiti (in particolare al Kdp). Lo dimostra il fatto che nell’ottobre 2015 il parlamento si sia di fatto bloccato per l’opposizione alla proposta del Kdp di confermare Masud Barzani alla presidenza del Kurdistan iracheno dopo due mandati consecutivi.

Un secondo tentativo è consistito nell’integrare il partito d’opposizione Gorran negli organi dell’esecutivo, assegnando ai suoi esponenti cariche ministeriali di rilievo (ministeri dei Peshmerga e della Finanza) al fine di controbilanciare il peso del Kdp. Essendo un partito di recente fondazione, Gorran non disponeva dei quadri amministrativi e militari necessari a sostituire il personale legato al Puk nei ministeri. Per Gorran era di fatto impossibile portare avanti il programma di riforma che si proponeva di emancipare le istituzioni del Kurdistan dal controllo dei partiti, ma anche trovare un’alleanza con il Puk e contro il Kdp dentro gli organi centrali di governo. Malgrado la loro rivalità politica, Kdp e Puk si sono infatti alleati nel prevenire il processo di riforma avanzato da Gorran.

Un terzo tentativo è quello di costituire un blocco anti-Kdp nei consigli provinciali di Arbøl, Sulaymåniyya e Kirkûk, per controbilanciare lo strapotere del suddetto partito nell’esecutivo centrale. Questa soluzione rischia però di creare una profonda divisione tra le provincie curde e mette fine una volta per tutte all’esperimento di costituire un governo curdo unico ad Arbøl.

In questo clima di divisioni interne e di immaturità istituzionale è stato annunciato un referendum per l’indipendenza del Kurdistan. Il voto potrebbe acuire, anziché risolvere, molti di questi problemi. Un esito favorevole potrebbe acuire i contrasti e diminuire l’efficacia delle istituzioni.

3. A detta del leader curdo del Puk, Jalal Talabani, il Kurdistan turco sarebbe «come l’Egitto nel mondo arabo»: l’ago della bilancia della questione curda. Un cambiamento negli equilibri della questione curda in Turchiaavrebbe un effetto diretto sul futuro del Kurdistan, nelle sue quattro componenti. Le parole di Jalal Talabani contenevano una grande intuizione politica, manifestatasi proprio al momento della sua uscita di scena, nel 2012. 

La crisi dell’accordo strategico tra Kdp e Puk ha infatti provocato un cambiamento radicale nelle relazioni tra i due partiti e un terzo soggetto, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che sin dalla fine degli anni Settanta ha capeggiato la lotta armata in Turchia. L’accordo strategico Kdp-Puk serviva a istituzionalizzare le relazioni curde su scala regionale, consentendo al Kdp di stringere rapporti commerciali e politici con la Turchia e lasciando al Puk la gestione delle relazioni con il Pkk, il quale manteneva una base a Qandøl, catena montuosa non lontana da Sulaymåniyya. L’indebolimento ha portato il Puk, insediato a Sulaymåniyya, ad avvicinarsi al Pkk per controbilanciare lo strapotere del Kdp, insediato ad Arbøl. Negli ultimi anni il Pkk ha espanso le sue attività su tutto il territorio tradizionalmente controllato dal Puk, aprendo nuove segreterie di partito, rafforzano la cooperazione militare con i peshmerga del Puk nella lotta contro l’Is e introducendo suoi combattenti persino nel Sinãår, un territorio tradizionalmente controllato dal Kdp.

L’espansione del Pkk in Siria ha portato a una ripresa delle ostilità tra Ankara e il Pkk, il che ha ulteriormente indebolito l’asse Arbøl-Sulaymåniyya. La priorità del Kdp è diventata contrastare il crescente potere del Pkk in Siria e in Iraq, anche a costo di diventare uno strumento dell’offensiva politica e militare di Ankara contro il Pkk. Il Puk, invece, ha stretto ancor più la sua alleanza con l’Iran e si è avvicinato al Pkk nel disperato tentativo di contrastare lo strapotere del Kdp nel Kurdistan iracheno.

Il nuovo assetto delle alleanze ha indebolito fino a neutralizzarli i meccanismi di cooperazione intra-curda. Le istituzioni della Regione curda d’Iraq hanno in parte continuato a funzionare come organi amministrativi, ma non più come spazio di cooperazione politica. Dal 2013, numerosi tentativi di organizzare una conferenza dei partiti curdi sono miseramente falliti, risucchiati nella diatriba tra l’arrogante Kdp – che proponeva di assegnare la presidenza della conferenza a Masud Barzani – e l’insistente Pkk – che invece proponeva una doppia presidenza. Analogamente, nei territori curdi di Siria non si è raggiunto alcun compromesso tra i partiti siriani curdi sostenuti dal Kdp e il Partito dell’unione democratica (Pyd) vicino al Pkk. Nella primavera del 2017 le forze di sicurezza dei due partiti sono arrivate a uno scontro armato nel distretto di Sinãår, divenuto il nuovo terreno di scontro tra questi poli della politica curda.

Lo scontro del Sinãår ha segnato un punto di svolta nella questione curda. La stagione della lotta armata tra combattenti curdi, alla quale le generazioni passate hanno assisto e partecipato, ha poche possibilità di ripetersi con le stesse modalità. È verosimile che i partiti curdi entrino in conflitto armato tra loro solo sporadicamente, ma che facciano constante ricorso alle loro alleanze con le potenze esterne per sconfiggere, militarmente o politicamente, i propri rivali. Un esempio di questa tendenza lo fornisce l’inazione del Kdp di fronte ai bombardamenti di Ankara contro il Pkk e le sue filiali in Turchia e Siria. Il Pkk ha dimostrato un atteggiamento simile, tollerando (talvolta agevolando) gli sforzi degli alleati di Teheran volti a isolare militarmente il Kdp.

In Iraq, il Kdp e il Puk sono riusciti a dispiegare le loro forze di sicurezza su quei territori a lungo contesi con il governo centrale di Baghdad; i membri delle segreterie di partito sono ancora al potere, sostenuti da accordi economici e militari con Ankara e Teheran che permettono loro di sostenere la spesa dell’impiego pubblico e di mantenere la sicurezza nei loro feudi. In modo simile, in Siria il Pyd è riuscito a espandere il controllo militare su tutte le zone curde, e anche oltre, sopravvivendo all’embargo imposto dalla Turchia e dal Kdp anche grazie a un’alleanza strumentale con il regime di Damasco. Kdp, Puk e forze militari vicine al Pyd hanno inoltre tentato di assicurarsi il sostegno militare della coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, con l’obiettivo di trasformare le vittorie militari in capitale politico per consolidare le relazioni diplomatiche con l’Occidente.

L’intento dominante che ha guidato l’azione dei partiti curdi è stato dunque quello di sfruttare al massimo un’occasione storica di cambiamento gepolitico per accumulare le risorse necessarie a consolidare le loro rispettive aree d’influenza. Procedendo in modo scoordinato e privilegiando gli obiettivi di partito rispetto alla causa generale, questa strategia rischia di fallire. Le potenze regionali tendono infatti a prendere il sopravvento, trasformando gli alleati curdi in pedine da usare strumentalmente contro le potenze rivali o per neutralizzare altri soggetti curdi. I partiti curdi hanno ottenuto un arsenale militare ragguardevole, ma non si sono assicurati il sostegno dei membri della coalizione anti-Is al progetto di uno Stato curdo in Iraq o di una regione curda in Siria.

Il sostegno occidentale alle forze curde nella battaglia contro l’Is in Iraq e in Siria rischia di alimentare ulteriormente questa tendenza. Gli Stati Uniti e altri paesi della coalizione hanno infatti preferito fornire sostegno militare separatamente a ciascuno dei partiti curdi, senza formulare una strategia politica che prevenga la pericolosa trasformazione dei partiti curdi in pedine delle potenze regionali. In Iraq il sostegno militare è stato gestito attraverso un apposito ministero dei Peshmerga che unisce forze del Kdp e del Puk, ma di fatto è stato poi ripartito tra le diverse figure di partito generando varie forze di sicurezza, ciascuna facente capo a un leader politico. In Siria la coalizione ha sostenuto le forze di sicurezza del Pyd, il che ha contribuito a inasprire la rivalità tra Pkk e Kdp.

Sebbene ciascuno dei partiti abbia accumulato risorse militari ed economiche, la dipendenza dalle potenze regionali e la natura strettamente militare della relazione con l’Occidente ostacola il progetto di autogoverno. Si profila piuttosto un sistema territoriale di tipo feudale, dominato da strutture di partito dipendenti da potenze esterne e rivali, quindi inclini ad affrontarsi e non a cooperare in nome dell’unità curda.

Questa tendenza è gia visibile nell’attuale assetto geopolitico. Il Kdp controlla Dahûk, una provincia del Kurdistan iracheno confinante con le regioni curde dell’Est della Siria (Rojava) controllate del Pyd. Applicando una politica simile alla Turchia, dal 2015 il Kdp ha chiuso a intermittenza le proprie frontiere con il Rojava per impedire l’esclusivo controllo del Pyd e del Pkk su queste zone, accrescendo così la dipendenza dei due partiti da Damasco. Intanto, sia nelle zone controllate dal Kdp sia in quelle sotto il controllo delle forze vicine al Pyd la popolazione curda è tenuta sotto stretto controllo, per impedire il formarsi di gruppi di opposizione. Così facendo, i partiti curdi sembrano riprodurre alcune pratiche di quei governi centrali contro cui hanno tanto combattutto, diventando strumenti di controllo delle loro popolazioni e quindi, paradossalmente, finendo per costituire il più grande ostacolo alla costruzione di uno Stato o comunque di un’unità curda.

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